Recensioni film

La vita che vorrei di G. Piccioni: recensione

Che Piccioni fosse un regista “difficile” lo si era già capito dalle sue precedenti prove, Fuori dal mondo e Luce dei miei occhi. Il suo stile “ostico”, minimalista e pignolo pervade anche questa nuova pellicola: l’autore vuole raccontare una storia di “doppi” dove la realtà e la finzione si mescolano e si sostituiscono, si confondono e si arricchiscono reciprocamente. Siamo sul set di un film ottocentesco in costume: tra feste di produzione, anteprime, trasferte trapuntate da un corollario di personaggi “squallidi” (agenti cinici, pigmalioni feriti, attori frustrati) nasce e muore la storia d’amore tra il protagonista Stefano (un grande Luigi Lo Cascio), uomo silenzioso e diffidente, e l’attrice Laura (ottima anche l’interpretazione di Sandra Ceccarelli), confusa ed indecisa.

Il risultato è molto deludente, innanzitutto per il tema, non particolarmente originale: dal capolavoro felliniano Ottoemezzo fino a Full Frontal di Soderberg, decine di registi si sono cimentati sul rapporto tra finzione e realtà. Non si può dire che il film di Piccioni possegga un approccio particolarmente originale,
giocato com’è su quell’intimismo dei toni a lui tanto caro.
In ambienti rarefatti, dominati dai volti degli attori, si gioca una partita a scacchi minimalista che vive di suggestioni e simbolismi molto rarefatti. Insomma, Piccioni racconta con un raffinato ma sterile manierismo una banale storia d’amore basata sui silenzi e sulle sottrazioni, privando lo spettatore di quel piacere del racconto che caratterizza invece molto cinema italiano ed irretendolo nella propria snervante tela di sottili notazioni psicologiche.
Tanta bravura (quella degli attori), un meccanismo preciso (quello della sceneggiatura), uno stile sicuro (quello del regista) francamente buttati: non c’è bisogno di questo tipo di film, di autori minimalisti, nessuno sente la necessità di queste atmosfere da fiction che stanno lobotomizzando lo spettatore medio.
Inutile e prevedibile.