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Catwoman di Pitof: recensione
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La sensuale donna gatto era apparsa per la prima volta nelle celebri strisce della Dc Comics nel lontano 1940 come "The Cat", avviandosi a diventare una delle più celebri antagoniste del Batman di Bob Kane. Nella versione “vulgata” Catwoman è in realtà la bianca Selina Kyle, figlia di un alcolizzato, la quale, per sfuggire da una vita ordinaria, si trasferisce a Gotham City dove, mascheratasi da gatta, mette in pratica le proprie doti acrobatiche per inaugurare la sua carriera criminale. Divenuta eroina dalla pelle nera per la prima volta in una serie televisiva degli anni ’60, Catwoman era stata interpretata dalla sensuale Michelle Pfeiffer nell’ottimo Batman, il Ritorno (1992) di Tim Burton.
Nel film di Pitof la donna gatto cambia letteralmente pelle: non più un’acrobata ma una designer timida e impacciata, che risponde al nome di Patience Phillips; non più bianca ma nera come la pelle d’ebano di Halle Berry. Insomma, si è cercato di dare a Catwoman un taglio più moderno, memore dello yuppismo newyorkese (in tutti i film americani manager e pubblicitari la fanno da padroni) e del girl power.
La sceneggiatura non è male, soprattutto nella prima parte, che ricostruisce il tipico percorso di formazione a cui tutti i supereroi (da Spiderman in poi) sono destinati: “sfigati” e denigrati da tutti, pian piano riacquistano fiducia in se grazie ai superpoteri, i quali però sono anche la loro condanna; così sarà per Patience/Catwoman, destinata a non essere creduta proprio dall’uomo che ama e costretta, in virtù della sua duplice natura (materna e felina, docile e aggressiva), a vivere per sempre libera e selvaggia, ma sola.
Dopo aver lanciato una buona storia, costruita su solide dicotomie (il sembrare contro l’essere, la ragione commerciale contro l’etica, etc.), il film si perde lentamente, accelerando il suo corso con passaggi poco chiari e soluzioni non ben motivate.
Quando la simpatica Patience diventa Catwoman perde tutto il suo fascino, irrigidita nel push-up troppo “cool”, nei dettagli alla moda, nel volto ipertruccato e nelle movenze esageratamente sensuali: troppo macchiettistica anche per un personaggio di derivazione fumettistica, la donna gatto resta vittima del suo personaggio, destinato a strusciarsi, a miagolare e a menare fin troppo insistentemente la sua frusta sado-maso.
Non aiuta nemmeno la regia di Pitof, benché in certi passaggi mostri un certo gusto per l’inquadratura: quando il film dovrebbe raggiungere il suo apice, si perde tra gli sculettamenti esagerati di Halle Berry e l’inutile frenesia delle coreografie action, che non rendono neppure ragione del lavoro del “maestro d’armi”. Come se la felinità non fosse altro che una questione di acrobazie e chiappe al vento.
Quello che si avviava a diventare un buon film di genere finisce per perdere la sua direzione e diventare un polpettone poco chiaro che fonde fumetto, realismo (gli scenari cittadini), archeologia (le inutili divagazioni sulla cultura egiziana) e quant’altro di “cool” possa esserci per un americano. Deludente.