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Fahrenheit 9/11 di M. Moore: recensione
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Ringraziamo la giuria di Cannes se le sale commerciali hanno osato mettere in circolazione un film “difficile” come quello di Moore: visti gli incassi record macinati nei primi giorni di programmazione possiamo dire, col senno di poi, che ce n’era pure bisogno.
Pochi sono i documentari che riescono ad uscire dal circuito di nicchia dei festival di genere (chi si ricorda, a parte Bowling a colombine di Moore, i documentari che hanno vinto l’Oscar?), meno ancora quelli che riescono a rimanere in sala per più di una settimana.
I documentari in pellicola, lungi dalla faciloneria didattica delle tante produzioni televisive, possono veramente fregiarsi del marchio “d’essai”. Il film di Moore ne è un esempio: non è semplicemente un’inchiesta passionale e dura su un momento cruciale della storia contemporanea ma anche un’opera d’arte ricca di “cattiveria”, di humour, di stile.
Moore mette insieme i dati su Bush raccolti negli ultimi anni con un’intensa leggerezza che non scoraggia lo spettatore ma lo guida con sapienza.
Moore preferisce mostrare piuttosto che declamare (il protagonista di molti passaggi del film è lui stesso) ma lo fa con sottile sarcasmo. Il suo obiettivo è scavare nella bidimensionalità delle immagini dei media per andare oltre e sotto la sottile patina di conformismo dei mezzi di comunicazione. Emblematici i titoli di testa, con i vari Bush, Powell, Rice che vengono imbellettati prima degli interventi televisivi: Moore parte proprio da qui, da quel “prima” nel quale l’immagine non è ancora diventata pubblica e quindi manipolabile, in ultima analisi non è ancora diventata finzione.
Paradossalmente (e intelligentemente) non mostra invece l’evento “clou”, ormai troppo abusato e visto per sembrare realmente vero: l’attacco alle torri gemelle resta solo un sordo rumore di macerie su schermo nero. L’attenzione va invece alle persone, ai volti stupefatti degli sfortunati che assistettero in diretta a quella terribile “esecuzione di massa”.
Fahrenheit è tanti film in uno: un’accusa al potere dei media (visto come è stato facile demonizzare Saddam pur senza prove?), un’inchiesta sui legami tra arabi e Stati Uniti ed anche una crudele rassegna sugli orrori della guerra e sui valori sui quali si regge.
E’ proprio nell’ultima parte del film che Moore affonda la sua spada di celluloide. Non vuole denigrare la guerra come un pacifista qualunquista ma ce ne mostra una in particolare (quella in Iraq) con tutte le sue contraddizioni: gli ufficiali che assoldano giovani disperati e disoccupati, il patriottismo di carta su cui si fondano gli USA, la realtà spesso ostracizzata degli ospedali per gli invalidi di guerra.
Cinema fatto di uomini e di passione dunque, che mostra e commenta, che scherza ed insegna con una vivacità che da tempo non si vedeva, quasi a mostrare l’orribile comicità (Bush che legge le favole imperterrito dopo aver saputo dell’attacco alle torri) della realtà.