Recensioni film

Smetto quando voglio: recensione

Il cinema italiano si è spesso interessanto ultimamente alla sorte del popolo dei precari, ma l’ha fatto quasi sempre con la lente del tragico o del grottesco, senza particolari sfumature o accenni di complessità.
È stato un dramma sociale (Giorni e nuvole di Soldini, L’intrepido di Gianni Amelio), una frattura capace di togliere futuro anche ai sentimenti (Generazione 1000 euro di Massimo Venier), umiliazione dolorosa nel ridursi a fare – da laureati – i lavori più assurdi (Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, Fuga dal call center di Federico Rizzo). Stavolta l’argomento è solo un pretesto. 

L’esordiente Sydney Sibilia confeziona la commedia che da tanto tempo avremmo voluto vedere in Italia: fotografia fluo e acida, dialoghi forbiti e auto dissacranti, umorismo efficace. E, poi, gli attori: a parte Edoardo Leo, senza il quale – Sibilia dixit – il film non si sarebbe fatto,  non ci sono i soliti noti di dubbia efficacia (e qualità), ma una sporca mezza dozzina di diffusa bravura (è stata sottolineata da molti la coralità del cast), da Valerio Aprea a Paolo Calabresi, da Libero De Rienzo a Stefano Fresi, da Lorenzo Lavia a Pietro Sermoni e Sergio Solli, con Valeria Solarino per la quota rosa e Neri Marcorè in sfregiato cammeo.

Si ride parecchio e non è una risata sterile, ma dettata dai canoni dell’attualità. Qualcuno ci vedrà l’ombra di Breaking Bad, almeno nell’idea di base; qualcun altro strizzate d’occhio alle complesse formule di The Big Bang Theory; altri ancora “la banda” alla Romanzo Criminale. C’è un po’ di tutto, in una estremizzazione della realtà che fa già ridere di per sé, ma che acquista punti in più perché viene espressa con le facce giuste. Il retrogusto è amaro, ma non sprofonda mai o quantomeno è filtrato dentro alla necessità che fa virtù.