Storia dell'arte
Introduzione alla Pop Art
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Il termine POP-ART, abbreviazione di “Popular Art'', fu coniato nel 1955 da due studiosi inglesi, Leslie Fiedler e Reyner Banham, per designare l'universo dei mass-media, o meglio delle forme visive e musicali a essi collegate: dal cartellone pubblicitario alla televisione, dal cinema stesso alla musica leggera, dai rotocalchi ai fumetti, dalla moda alla confezione delle merci di consumo. Il variegato e a suo modo immaginativo linguaggio dei nuovi prodotti destinati alla massa, aveva preso il posto delle immagini popolari di un tempo, legate invece all'artigianato e a tradizioni locali, occupando tuttavia il loro livello.
Ma all'inizio degli anni Sessanta il critico americano Lawrence Alloway adottò l'espressione “Pop Art'' in altro senso, come sigla di un nuovo movimento d'avanguardia le cui manifestazioni, pur attestandosi al livello “colto” dell'arte, operavano un inedito scambio con i mass-media.
Questo movimento era esclusivamente americano nello schieramento dei suoi protagonisti.
Mostre intitolate alla Pop Art, o a espressioni similari, ebbero luogo negli Stati Uniti nel 1963.
Il successo internazionale del movimento fu decretato dalla Biennale di Venezia del 1964, apertasi nel giugno, dove esposero Rauschenberg, Johns, Dine e Oldenburgo.
Prima di confluire nella Pop Art, Johns e Rauschenberg avevano partecipato negli anni Cinquanta di quel clima variamente connotato che aveva come caratteristica comune la riscoperta e il recupero linguistico del Dadaismo, sia pure interpretato secondo nuove poetiche, in America come in Euroра.
Negli Stati Uniti si chiamava “New Dada'', ed è ora da un'analisi del “New Dada'' e delle sue ricognizioni di immagini e oggetti che dobbiamo prendere le mosse.
Il neo dadaismo
Kurt Schwitters, Hannah Höch, Marcel Duchamp, esponenti del Dada storico, sono gli artisti che maggiormente hanno influenzato le correnti neo-dadaistiche degli anni Cinquanta.
Il primo aveva fatto uso di materiali eterogenei (ritagli di giornale, frammenti di legno naturale o colorato, biglietti del tram e altri residuati), in singolari montaggi come nel celebre “Merzbau” accumulato nella sua casa di Hannover tra il 1924 e il 1932: dove “Merz” è frammento della parola “Kommerz” e “bau” significa costruzione.
La seconda aveva prodotto collages sovraffollati, nella compresenza di frammenti a stampa, foto di famiglia, di paesaggi e di opere d'arte, insetti da collezione, con il contorno di disegni dal tratto infantile.
Il terzo, morto nel 1968 e vissuto tra Parigi e New York aveva proposto, con l'invenzione del ready-made, oggetti comuni e “già fatti'' come opere d'arte, togliendoli dal loro contesto e isolandoli in una particolare presentazione. La poetica, almeno apparentemente nichilistica, di Duchamp era caratterizzata anche dal costante ricorso al “non-senso", con giochi di parole ed espressioni gratuite (o ermetiche), a commento, integrazione o sostituzione delle immagini. Alcune facevano ricorso all'ironica, vaneggiante o poetica leggerezza del non-sense. Altre praticavano l'impiego di materiali e detriti del consumo, immettendoli in un flusso informe, con o senza il sussidio di impasti pittorici sfatti e colanti, operando una fagocitante ricognizione nel panorama del quotidiano, quasi alla ricerca di una nuova identità collettiva.
E il caso, appunto, di Rauschenberg, ma anche, e sia pure con diverse connotazioni, degli artisti europei che furono riuniti nel 1960 sotto l'etichetta del “Nouveau Réalisme'': gli “assemblaggi'' di materiali ferrosi di César, le “accumulazioni'' di ferri da stiro, tubetti di colore, violini o altri oggetti di Arman; gli “impacchettamenti'' di Christo; le “macchine inutili'' di Tinguely; gli avanzi di banchetti di Spoerri; i “décollages” (manifesti strappati) di Mimmo Rotella.
Quanto alle fonti, è opportuno ricordare che, storicamente, l'impiego di materiali extra-pittorici non era stato appannaggio esclusivo dei dadaisti; infatti prima di loro i cubisti, inventori della tecnica del “collage'' e i futuristi, praticando il “polimaterismo”, avevano avviato questo filone di ricerca, ma con sensibilità costruttiva, impegnata nel perseguimento di solide strutture formali e senza le venature di paradossale racconto, di gratuità o di speculazione concettuale proprie del Dadaismo storico.
In questo ambito non dadaistico di ricerca sui materiali, Alberto Burri poi, intorno al 1950, con la clamorosa novità dei “sacchi'', aveva rinnovato e rivoluzionato la pratica del collage, accoppiando un robusto senso plastico dell'impaginato geometrizzante alla nascente sensibilità del segno e del materismo informali: ma il segno non era grafico, bensì “incarnato''' nelle cuciture e bruciature; e le materie non erano pittoriche, ma prelevate dalla realtà, tra quei detriti del consumo di cui veniva ora sottolineata la pregnanza esistenziale.