Storia dell'arte

La vita di Caravaggio

Nel 1884 che il poeta Paul Verlaine pubblica un'opera dal titolo I poeti maledetti, rovesciando la graduatoria dei valori sanciti dai benpensanti ed esaltando quegli scrittori che, come lui stesso, davano vita ad una poesia trasgressiva, autodistruttiva e geniale, libera, calamitata dalla follia e dalla tentazione del "male".
L'immagine, divenuta popolarissima, del Caravaggio "pittore maledetto" s'affaccia nel clima romantico di questa nuova ideologia dell'arte e si nutre di tutte le sue suggestioni, resistendo fino ai nostri giorni, almeno nell'opinione di molti critici e della maggioranza del pubblico.

POVERTÀ E STATO SOCIALE
«È faticosamente uscito dalla povertà mediante il lavoro assiduo» scrive del Caravaggio, l'olandese Carel van Mander; appena giunto a Roma, «se la passava la sera con un'insalata», testimonia Giulio Mancini. Secondo il Bellori, il padre faceva il "muratore" e lo stesso Michelangelo, nella cittadina di Caravaggio, aveva portato «lo schifo della calce nelle fabbriche», trovandosi così «a far le colle ad alcuni Pittori, che dipingevano a fresco»: circostanza, quest'ultima, da cui sarebbe nata la sua passione per la pittura.
In realtà Fermo Merisi, padre di Michelangelo, era "maestro di casa" dei marchesi di Caravaggio ed esercitava, sia pure modestamente, il mestiere di architetto, come si ricava dal Mancini. Doveva trattarsi, in sostanza, di una famiglia abbastanza agiata, della piccola nobiltà locale.
I documenti, di cui alcuni ritrovati solo recentemente, confermano quel quadro: i Merisi possedevano alcuni terreni, che il giovane Michelangelo, rimasto orfano, vendette subito prima di partire per Roma, al compimento dei ventuno anni di età, sulla fine del 1592.
Un fratello, Giovan Battista, divenne sacerdote, e sacerdote era anche lo zio paterno, Ludovico Merisi, che dopo la morte dei genitori assunse la tutela di Michelangelo e lo precedette a Roma di qualche mese.
Egli dunque, all'arrivo nella grande città non era certo privo di punti di riferimento e, anche se versava in qualche difficoltà economica, non doveva essere poi così disperato.
Quanto alla sua iniziazione alla pittura, era avvenuta nel 1584 quando, come attesta un contratto, il tredicenne Michelangelo fu allogato per alcuni anni in Milano presso un maestro assai quotato, il bergamasco Simone Peterzano.


 

IL TEMPERAMENTO VIOLENTO E STRAVAGANTE
Su questo, tutte le fonti sembrano d'accordo. Già nel 1600 o 1601, il van Mandor così scrive: «quando ha lavorato un paio di settimane se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo di dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare». I documenti confermano l'irrequietezza dell'artista. Il 19 novembre del 1600, un tale Girolamo Stampa querela il Caravaggio per averlo aggredito a bastonate e con la spada; il 28 agosto del 1603 il pittore Giovanni Baglione (suo futuro biografo) lo cita in tribunale insieme all’architetto Onorio Longhi, per aver i due amici diffuso delle poesie scurrili e diffamatorie contro di lui; nell'ottobre e nel novembre del 1604 il Caravaggio è incarcerato due volte per aver ingiuriato gli sbirri; il 28 maggio 1605 è arrestato per porto d'armi abusivo.
Il 28 maggio del 1606 avviene poi l'irreparabile: il Caravaggio uccide certo Ranuccio Tomassoni da Terni in seguito a un litigio sorto durante un incontro di pallacorda, il tennis di allora. «La rissa fu per giuditio dato sopra un fallo, mentre si giocava alla racchetta, verso l'ambasciator del granduca» [di Toscana] vale a dire nei pressi di palazzo Firenze, dove il nome di una strada (via della Pallacorda) tramanda ancora oggi l'antica destinazione dell'area a campo di gioco Dalla parte del Caravaggio, partecipano alla rissa il suo compagno Onorio Longhi, un certo Antonio da Bologna che rimane anch'egli ucciso, e probabilmente un altro suo amico pittore, Mario Minniti; dalla parte del Tomassoni, altre tre persone di cui ignoriamo l'identità.
Nello scontro lo stesso Caravaggio rimane gravemente ferito alla testa e subito dopo fugge da Roma, riparando nei feudi laziali dei suoi protettori Colonna. Non potremo mai sapere se' fu il pittore ad aggredire l'avversario, o se agì per legittima difesa. Da un esame approfondito delle fonti, si è però potuto ricostruire che il Caravaggio fu ritenuto pienamente colpevole, tanto da essere condannato a morte in contumacia.
Dopo il breve periodo di convalescenza trascorso nei feudi Colonna, il Caravaggio fugge a Napoli e poi a Malta, dove è imprigionato, quasi certamente in seguito al mandato di cattura emesso da Roma. Evaso dal carcere (e siamo ormai nel 1608) vaga da Siracusa a Messina, da Messina a Palermo; poi nel 1609 è di nuovo a Napoli, dove subisce l'aggressione di alcuni uomini armati (molto probabilmente delle guardie) e, ridotto quasi in fin di vita, con altrettanta probabilità è di nuovo arrestato.
Ma qualcuno, a Roma, si adoperava per la grazia. Raggiunto dal perdono papale, il Caravaggio si reca nel luglio del 1610 a Port'Ercole, quasi certamente sotto scorta, per adempiere in quel carcere alle complesse formalità necessarie per il rilascio.
La morte lo raggiunge mentre, rilasciato, vaga sulla spiaggia alla ricerca del vascello che doveva riportarlo a Roma.
La tragedia degli ultimi quattro anni di vita del Caravaggio, fuggiasco e braccato, è certo la causa di quei comportamenti "strani" che alcuni antichi biografì imputavano invece alla presunta bizzarria del suo carattere. L'artista doveva vivere nel terrore di esser scoperto, imprigionato e giustiziato, e se teniamo conto dello sconvolgimento che non potevano non aver provocato nel suo animo le vicende della drammatica fuga da Roma, l'evasione da Malta, il continuo pellegrinaggio da una città all'altra, sempre in stato di tensione e di allarme. Anche le fonti romane insistono sulla rissosità e sull'ombrosa bizzarria del Caravaggio, ma non si spingono a parlare di follia, a riprova che, il “cervello stravolto”, egli l'ebbe soltanto nel tragico epilogo della sua vita.
La sua esistenza, d'altra parte, era stata toccata dalla tragedia e dall'incubo della morte fin dalla fanciullezza, quando aveva perduto in Lombardia, durante la peste del 1577, il padre e i nonni.
Quanto alla sua rissosità, è certamente acclarata, anche se va tenuto ben presente che nella società dell'epoca era un tratto di costume notevolmente diffuso, tale quindi da non potersi considerare eccezionale. Il grande drammaturgo inglese Christopher Marlowe, quasi coetaneo del Merisi, fu ancor più violento, attaccabrighe, e morì di pugnale in una rissa. Il poeta G.B. Marino era di casa in gattabuia e fu bersagliato dalla pistola del Murtola. Lo stesso Sant'Ignazio di Loyola era stato un inquieto uomo d'armi .
Ma oltre che dagli antichi biografi, il mito moderno del Caravaggio "pittore maledetto" è alimentato da un'errata lettura delle sue opere: sia dei tratti del suo "realismo", che ritrae un'umanità povera e sofferente, reietta, e dunque sospettabile per inconscio automatismo di pericolosità sociale; sia dei profondi contrasti di luce e ombra, che possono evocare un'immagine di "tenebrosità" anche psichica; sia infine dell'androginia, che caratterizza gli efebici giovanetti dipinti in gioventù dall'artista.

LA PRECOCITÀ
Questo presupposto ha finito per influenzare in modo errato le datazioni dei dipinti.
Solo recentemente del resto nuovi documenti hanno consentito di appurare che il Merisi nacque (a Milano e non a Caravaggio, dove pure visse) nel 1571: quasi certamente il 29 settembre, giorno di San Michele Arcangelo, da cui prese nome.
Fu molto più normale di quanto non si pretendesse. Il "genio" non è solo un dono di natura, ma anche un portato dell'applicazione, dello studio e di una maturazione intellettuale: allo stesso modo che la "stranezza " del pittore non fu nella sua indole, ma fu un comportamento condizionato dalle tragiche vicende dei suoi ultimi anni.

L'ATEISMO
Anche questo è un connotato del «poeta maledetto»: ben inquadrabile nella cultura del XIX secolo, ma meno facilmente ambientabile in quella del XVII, e ancor più difficilmente attribuibile a un pittore come il Caravaggio che eseguì tante tele d'altare.
I documenti attestano per di più due fatti precisi: che il pittore si comunicava (tanto si ricava dagli “Stati d 'Animae” di San Nicola dei Prefetti) e che nel 1608, a Malta, «zelo religionis accensus», entrò a far parte dei «fratres milites» di quell’ordine, accettandone la regola agostiniana. Un suo dipinto nell'isola, la Decollazione di San Giovanni, è firmato: «f(rà) Michel Angelo» .
La circostanza che ha indotto i critici moderni a supporre che il Caravaggio fosse davvero miscredente, è però soprattutto un'altra: il rifiuto di alcune sue opere dagli altari per motivi, tramandano le fonti, di "decoro". Le accuse vertevano sulla pretesa volgarità delle sue figure, in quanto umili, dimesse, talvolta rozze e con i piedi sporchi. La polemica non divideva in realtà credenti e miscredenti, ma i fautori di una chiesa "povera", tra cui il Caravaggio si collocava, e quanti invece paventavano questi ideali che potremmo definire "di sinistra".
Si è infine sostenuto che il Caravaggio, nel rappresentare le storie sacre, trasgredisse le fonti del Vecchio e del Nuovo Testamento, allontanandosi dalle iconografie ufficiali: qui l'errore è ben documentabile, giacché questo allontanamento mirava, semmai, ad una più fedele adesione al dettato della Bibbia o alle iconografie pittura cristian a primitiva. Il che ricombacia con le stesse intenzioni e finalità che il Caravaggio perseguiva nell'esaltare i
poveri e gli umili. La Chiesa delle origini era contrassegnata dalla povertà, e alla sua purezza e ai suoi ideali alcuni prelati auspicavano il ritorno.

 

LE PRETESE DEVIANZE SESSUALI
Ecco un altro punto dove la fantasia degli interpreti si è esercitata ricalcando, anche in questo, il cliché ottocentesco del ''poeta maledetto" .
Si è voluto trovare qualche appiglio nei documenti e nelle fonti letterarie, rifacendosi ad un altro racconto del Susinno.
Di Caravaggio abbiamo notizia di almeno due relazioni femminili, con una certa Menicuccia e una certa Lena.
Ma i fautori dell'ipotesi, così mondanamente brillante, avvalorano anche una biografia del cardinale Del Monte, grande protettore del Caravaggio, in cui l'ecclesiastico è descritto come uomo licenzioso e di scarsa cultura. Senonché quella biografia fu scritta da un nemico politico che voleva giustificare l'opposizione degli Spagnoli alla sua candidatura al soglio pontificio.
In realtà la presunta omosessualità del Caravaggio, utile ad aggiungere un tocco al quadro del suo maledettismo, è probabilmente solo un abbaglio; e questo discende soprattutto da una discutibile esegesi di alcuni dipinti del primo periodo romano, che presentano figure effeminate o ritenute provocanti. A lungo, del resto, ci si è rifiutati (e molti ancora si rifiutano) di applicare al Caravaggio quella lettura secondo i codici "iconologici" dell'epoca, che consente di apprezzare le bellissime rivelatrici simbologie di cui la sua pittura è intessuta, pur nell'approccio realistico. Senza intendere il contesto dei simboli ogni scelta di figure o di oggetti appare come il frutto di un impulso immediato, orientando verso interpretazioni soggettive e modernizzanti.
I dipinti in questione sono il Fanciullo con canestra di frutta, Il suonatore di liuto, il Concerto, il Bacco, il Riposo nella fuga in Egitto, la Cena in Emmaus, il San Giovannino.
Sono dipinti destinati a collezioni private: il che implica una diversità di formato e anche una tonalità più lieta o soave rispetto ai ''tenebrosi" e drammatici dipinti di chiesa. Non pensiamo che implichi invece un radicale allontanarsi dalla polarità sacra verso un ammiccamento licenzioso o verso una scelta di soggetti "di genere", puramente pretestuosa ed esente da significati.