Storia dell'arte
I primi anni
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Figlio di Pietro, scultore fiorentino che dal 1584 era attivo a Napoli, Gianlorenzo Bernini nacque in questa città il 7 dicembre 1598.
Fin dall'infanzia egli ebbe dunque quotidiana dimestichezza con la pratica della scultura, assistendo alla lenta evoluzione del padre dai modi ancora ispirati alla tradizione rinascimentale toscana a invenzioni che, quasi già scavalcando il generico formulario manierista di quel momento, approdavano alla patetica serietà della “riforma cattolica": una evoluzione che dalle statue di San Lorenzo e di Santo Stefano nel duomo di Amalfi (1602) e a quelle di altri santi nella cappella Russo della chiesa dei Gerolamini a Napoli (1603-1606) sapeva svolgersi sino alla grandiosa Madonna con il Bambino e san Giovannino nella Certosa di San Martino, pure a Napoli.
Non è pensabile che Gianlorenzo fanciullo sia stato altro che un testimone del lavoro del padre: e però un testimone attento, che già si sentiva suscitare la vocazione artistica e si rendeva consapevole della intrinseca natura del “mestiere”.
La sua formazione si compirà piuttosto, e sempre nell'ambito paterno, a Roma, ove la famiglia s'era trasferita nel 1605-1606, quando Pietro svilupperà i suoi intendimenti di rappresentazione monumentale nel rilievo con l'Assunta nel battistero di Santa Maria Maggiore e nella faticata elaborazione dell'altro rilievo con l'Incoronazione di Clemente VII sulla tomba del pontefice nella cappella Paolina della stessa basilica di Santa Maria Maggiore (1611).
Il cantiere della cappella Paolina – ordinata dal papa Paolo V Borghese per ospitarvi anche il proprio sepolcro - offriva l'esempio di un ampio concorso di scultori, pittori e decoratori che l'architetto Flaminio Ponzio coordinava in una coerente coralità, pur nel divario tra le singole personalità. Proprio questa coralità e la sapienza della regia del Ponzio dovettero maggiormente interessare Gianlorenzo e anche indurlo a discernere, almeno tra gli scultori, quelli che erano portatori di caratteri più moderni (Nicolas Cordier, Cristoforo Stati, Stefano Maderno, Camillo Mariani e Francesco Mochi) da quelli che invece s'attardavano sulla consuetudine della “maniera” (il Valsoldo, Ambrogio Buonvicino, Silla da Viggiù).
Il rapporto tra Gianlorenzo e il padre si trasformava intanto da un discepolato a una fattiva collaborazione. Se anche non convincono le ipotesi che vorrebbero l'intervento del figlio nel completamento della già ricordata Madonna con il Bambino e san Giovannino della Certosa di San Martino a Napoli, e tanto meno nella esecuzione del busto di Antonio Coppola in San Giovanni dei Fiorentini a Roma, pagato a Pietro nel 1612, più probabilmente sono di Gianlorenzo i cesti di fiori e frutta nei due “termini” raffiguranti Priapo e Flora che Pietro aveva scolpito per la villa Borghese a Roma (1615-1616) e che sono ora nel Metropolitan Museum di New York, e le analoghe “nature morte” nelle statue delle Quattro stagioni della villa Aldobrandini a Frascati. Quel che vi si coglie è specialmente una turgidezza plastica e una evidenza naturalistica nella quale a ragione è stata riconosciuta l'attenzione per modelli caravaggeschi quale il Giovane con un cesto di frutta già allora posseduto dal cardinale Scipione Borghese.
Ancora nella decorazione della cappella Barberini a Sant'Andrea della Valle (per la quale Pietro aveva realizzato una delle sue cose migliori, la statua di San Giovanni Battista, 1616 circa) padre e figlio lavorarono congiuntamente, e così pure nel bellissimo gruppo raffigurante un Fauno che scherza con amorini, del Metropolitan Museum di New York. In questo gruppo già s'avverte la prevalenza qualitativa di Gianlorenzo per una elegante e fluida naturalezza che riecheggia modelli del tardo ellenismo, anche nella interpretazione ironica del tema mitologico, e così ravviva l'impianto formale a suo modo manieristico. Un ellenismo rivisitato, senza soggezione alcuna alla cultura “antiquaria”, neppure quando egli si applicherà - come quasi tutti i maggiori scultori del momento – al "restauro” di statue antiche.
Nel 1620 gli sarà affidato un Ermafrodito (che dalla collezione Borghese passerà poi al museo del Louvre, a Parigi) e la sua aggiunta d'un materassino marmoreo inserirà un accento di illusionistico verismo.
Più tardi, nel 1627, egli interverrà sul grande Ares della collezione Ludovisi, che praticamente abbisognava soltanto di minute riparazioni: Gianlorenzo rifece un braccio, un piede e la testa del puttino che sta tra le gambe della divinità, e però curò di tenere visivamente ben distinte queste parti, non solo per il carattere stilistico, bensì pure per il trattamento del marmo, non condotto allo stesso grado di finitura della statua antica. Questo suo lavoro fu portato da Orfeo Boselli, scultore e autore del trattato Osservazioni della scoltura antica, come uno degli esempi più probanti di restauro della statuaria classica del quale egli, con singolare anticipazione dei criteri moderni, già propugnava il rigore filologico e il rispetto dei testi originali.
A questo rispetto Gianlorenzo era pervenuto non per via teorica o erudita, ma per sensibile capacità di lettura di quei testi, capacità di ispirarsi a essi con originalità piena di intendimento creativo: e invero motivi classici chiaramente traspaiono nel San Lorenzo sulla graticola (Firenze, palazzo Pitti) e nel San Sebastiano (già Barberini, e ora a Lugano, collezione ThyssenBornemisza), che si datano a poco dopo il 1615 e partecipano quindi dello stesso momento psicologico che dette vita alle parti proprie del Fauno del Metropolitan Museum.
Un momento psicologico, peraltro, che si alimentava anche di più moderna cultura: Pietro da Cortona noterà richiami alle Pietà di Michelangelo nella positura del San Sebastiano. Ma fu ancora la pittura contemporanea a costituire un fascinoso punto di riferimento. Lo ricorderà più volte lo stesso Bernini: riferendosi certo alle proprie esperienze giovanili, egli indicherà quali pittori prediletti i grandi maestri del Rinascimento e poi Annibale Carracci e Guido Reni. L'interesse per la pittura sarà un'attitudine costante: a Parigi non nasconderà una certa freddezza nei confronti dei pittori francesi, ma esalterà le doti di «grande favoleggiatore» di Nicolas Poussin.
Esiti ovviamente diretti di tale interesse si vedranno nella esigua, e però non marginale, produzione pittorica di Gianlorenzo: a partire dall'Autoritratto della galleria Borghese a Roma, proprio all'inizio degli anni Venti, per durare poi in specie nel David con la testa di Golia della collezione Incisa della Rocchetta Chigi a Roma e nel Sant'Andrea e san Tommaso, a mezze figure, già Barberini e ora nella National Gallery di Londra, documentato al 1627.
La fisionomia che emerge dalle opere fin qui menzionate è quella d'un giovane studiosamente intento a orientarsi tra l'antico e il nuovo “classicismo”, anche al di là del campo specifico della già ben padroneggiata pratica della scultura; precoce (ma anche questa dote tanto decantata dalle fonti letterarie si riconduce a più realistica misura) e mosso da intendimenti tutt'altro che rivoluzionari, neanche incline a inedite elaborazioni tematiche oppure a “concetti” nuovi come quelli che avevano fatto irruzione nella pittura, sul versante caravaggesco.
La sua stessa originalità formale era pure meno innovativa rispetto a quella di cui altri seppero allora dare prova, specialmente Francesco Mochi già con l'Angelo annunciante e la Vergine annunziata del duomo di Orvieto (rispettivamente del 1605 e del 1608), poi con il San Matteo all'esterno dell'abside della cappella Paolina a Santa Maria Maggiore (1608) e con la Santa Marta della cappella Barberini a Sant'Andrea della Valle (1610-1612), infine con le prime ideazioni e modelli (1612-1613) dei monumenti equestri di Ranuccio e Alessandro Farnese a Piacenza. Ma il Mochi, appunto, la sua fortuna la troverà fuori di Roma, e forse soltanto il San Matteo, per la sua densa accezione “caravaggesca”, e la Santa Marta dovettero attrarre l'attenzione dei Bernini, padre e figlio.
Questi distinti orientamenti riflettono, anche nel loro lento assestarsi su posizioni meglio definite, il clima generale della cultura figurativa a Roma in quei primi decenni del Seicento. Riflettono cioè un momento in cui perduravano ancora (ed era anche difficile che si sdradicassero del tutto dal gusto di tanti committenti) i modi dell'ultimo manierismo e i moventi espressivi legati alla “riforma cattolica”. Quando perfino la grande innovazione caravaggesca si riconduceva, nell'opera di seguaci italiani e nordici, a più ordinate soluzioni formali e anche a tematiche episodiche, non più sospinte dalla tensione intellettuale e morale che solo Caravaggio aveva saputo intonare.